UN POSTO SICURO

Vi lascio questa lettera, la lascio ad ognuno di voi, soprattutto a Marco e sua madre, Andrea, Angelica (che di celestiale porta solo il nome), Giulia, Clarissa e a mio padre. Spero che ognuno di voi possa leggerla e possa sentirsi colpevole, tutti, nessuno escluso perché tutti hanno visto, tutti potevano fare qualcosa, tutti compresa io. Certo. Ma io ora sono stanca, no in realtà non sono stanca, forse senza speranza, senza desideri, senza sogni… come dire apatica? Ecco sì, apatica, l’alpha privativo davanti a pathos rende bene il concetto: non sono più in grado di provare emozioni, no! Non sono in grado e non sono più capace neanche di resettare, tornare indietro, cancellare, dimenticare. E pensare che quella dell’apatia per gli stoici era una grande virtù, l’unica che riusciva a condurli al suicidio. Ecco proprio questa grande virtù posseggo. Spero proprio che i miei professori nel leggere questa lettera siano orgogliosi di me, da sempre una studentessa modello, e lascio scritta una citazione in greco, un preambolo sull’etimologia della parola, insomma, lascio scritto quello che sento con le parole più opportune perché… le parole pesano, qui non peso (troppo) solo io, ma anche loro; peccato che la gente (gente per non dire gentaglia, massa non pensante) si accorga solo del mio e non del loro e per questo lo usa a caso, o per meglio dire a sproposito. Come Marco e sua madre… ah sì! Vi presento Marco, rappresentante di classe, muscoloso, bel ragazzo, educazione sotto le scarpe e vocaboli conosciuti dieci tra cui parolacce e bestemmie. Ovviamente a lui non serve parlare, né argomentare, né tentare di giustificarsi, crede che il mondo sia ai suoi piedi e che un gesto, un verso onomatopeico, una smorfia siano sufficienti per una sana e completa comunicazione, con me però (sono proprio una eccezione) si spinge oltre. Accanto a tutti quei versi bestiali aggiunge cose come bombolona ripiena, carrettone, portaereo (io lo so che si dice portaerei, ma lui no e chi glielo spiega?!) e “dulcis in fundo” balenottera spiaggiata. Dopo due anni che ascoltavo queste parole, la rabbia e la sofferenza si erano trasformate in indifferenza e allora, al terzo anno, Marco ha pensato bene di cambiarmi la pena, perché in quel modo non la stavo scontando abbastanza; una mattina durante la ricreazione, mentre io ero da sola a mangiare, ha deciso di farmi alzare dalla sedia, di lasciarmi in piedi mentre chiedeva aiuto ad un suo amico, Andrea, e di iniziare a divertirsi. Hanno entrambi cominciato a scuotermi, a farmi roteare su me stessa, inneggiando ad una teoria che avevano letto in internet e che, più o meno, sosteneva come i movimenti repentini e continui portassero al dimagrimento. Cose da folli, sia chi le ha scritte sia, forse di più, chi le ha messe in pratica. Non mi accorsi di chi ci stava guardando, sicuramente tutti, io mi concentravo solo a non vomitare e a pregare affinché smettessero. Quasi cinque minuti durò questo bellissimo gioco, cinque minuti senza che nessuno dicesse nulla, cinque minuti nel totale silenzio (a parte qualche mio versetto) e nel totale imbarazzo; di solito mi lamentavo per le ricreazioni troppo brevi, quella volta fu la mia salvezza. Ma il peggio non è finito, la voce dell’accaduto si iniziò a spargere e lo venne a sapere la madre di Marco… speravo che, dopo quanto ascoltato, senza neanche avvisarlo, gli avrebbe mollato due ceffoni, perché non solo aveva fatto un gesto inopportuno verso di me, ma perché aveva buttato all’aria sedici anni di educazione impartitagli proprio da lei stessa; invece NO. NO. Il nulla. Dopo aver compreso bene quello che era successo, se ne uscì con “Ma dai, per questa bravata, lei non si è fatta nulla anzi si sarà divertita, mio figlio le ha dato cinque minuti di attenzione, di solito non lo fa nessuno, lei è sempre sola, ripeto, si sarà pure divertita”. Ci tengo a sottolineare proprio qui, mentre scrivo, che la colpa è la sua, signora, sì, proprio la sua, e vorrei anche darle un consiglio perché ne ha bisogno: Marco è e sarà sempre suo figlio, anzi lo sarebbe stato di più se lo avesse (almeno) rimproverato. Marco ha bisogno di aiuto, tanto quanto me, forse più, avrebbe bisogno di qualcuno che lo veda, lo veda davvero e per vederlo, a volte, è necessario che lei ci si scontri come a dire “io ci sono, ti vedo e ti sento, ti supporto, ti sono vicina, ma lascio anche che tu ti prenda le tue responsabilità, che impari, che ti vergogni di quello che fai e di quello che non fai”; bastava questo. Era sufficiente solo questo. Ma veniamo ad Angelica, Giulia e Clarissa, so che siete curiosi, lo so. Ecco loro sono un bellissimo trio, tre ragazze carine, studiose, educate, simpatiche e così invidiose, maliziose, fragili e forti allo stesso tempo, che pensano di poter dire tutto senza colpo ferire. Anche in questo caso, per tre anni mi sono sentita derisa, umiliata, inadatta, inopportuna, inabile, incompetente, inadeguata… insomma, “in” e qualsiasi aggettivo vogliate metterci; non posso qui scrivere gli insulti perché effettivamente non ce ne sono mai stati, ma i fatti parlavano chiaro; mai invitata ad una loro festa, mai messa sul gruppo di whatsapp della classe (gestito da loro), mai invitata ad una cena fra amiche, mai parlato di ragazzi e di prime cotte (tanto per loro non potevo neanche lontanamente pensare di avere una relazione), mai coinvolta in progetti… sempre allontanata, sempre lasciata con un’unica compagna: la solitudine. Poi arriviamo a mio padre, un uomo di poche parole, un trascorso poco felice, una separazione, un lavoro che non era mai decollato e uno strano modo di affrontare le difficoltà della vita: non dar loro peso (come vedete tutto ruota intorno al peso). Non era però uno sciocco, comprendeva bene che qualcosa non andava, ma non immaginava che il problema stesse a scuola, il posto più sicuro, il posto più all’avanguardia, il posto dove crescono le menti del futuro e dove la prospettiva è sempre diversa, sempre aggiornata. Non se lo aspettava che in quel posto io stavo morendo dentro, che piuttosto che crescere diventavo piccola piccola, sperando di ottenere l’invisibilità. Non se lo aspettava o forse non voleva vederlo, non voleva credere di aver fallito anche in questo, non voleva confrontarsi con questa realtà che sicuramente lo avrebbe ferito tanto quanto me… e allora è rimasto in lontananza, scostante, neutrale, anonimo nella schiera degli indifferenti. E io? Io? Avrei potuto fare qualcosa io? Avrei dovuto reagire di più? Urlare più forte…? Non lo so. Quello che so è che ora andrò in un posto più sicuro.

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