“Una spelonca giace d’edera, d’ombre e di dolci acque amena” (Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, canto XVI)
Celato dalle fronde degli alberi che costeggiano il cosiddetto Fosso di Rigoverci, l’eremo della Pasquarella si pone come una delle più importanti e celebri testimonianze dell’eremitismo umbro.
Il loro passaggio è avvenuto in prossimità delle gole del Forello, caratterizzato da pareti calcaree e da una florida vegetazione che arricchisce quello che è un patrimonio non solo spirituale ma anche culturale.
Un luogo latente, attorno a cui vertono numerose leggende e miracoli che ancora mantengono immutata l’autenticità di quella valle.
Non ci sono pervenuti documenti di fondazione e ciò suscita non pochi interrogativi sul sito e sul culto. Un primo contributo alla soluzione dell’aporìa ci è dato indubbiamente dai miti di fondazione.
Uno dei più diffusi vuole che il fosso della Pasquarella sia stato interessato da un’inondazione eccezionale, le acque che il torrente raccoglie dalle gole dei monti raggiunsero molti metri di altezza. Quando finalmente si ritirarono, dove oggi sorge il santuario, fu ritrovata un’immagine della Madonna, la Vergine era sorta dalle acque. Da qui la comune volontà del popolo di erigere per il simulacro una chiesa sul luogo del ritrovamento.
Sempre a Civitella, però, circola la redazione di un altro mito estremamente suggestivo che conferma il luogo del culto, ovvero una grotta a sinistra del fosso della Pasquarella ma, in questo caso, l’origine della devozione è alquanto diversa.
La tradizione narra che un giorno remoto anche la Madonna in sella ad un cavallo percorreva gli stretti e scabrosi sentieri del Forello; giunta al punto più pericoloso, con un balzo sorvolò il grande burrone della gola e si portò nel punto in cui oggi sorge, edificata a ricordo della vergine e di questo fatto, la chiesa della Pasquarella.
La prima occupazione delle grotte presenti in loco è da parte di eremiti siriaci nel VI – VIII secolo d.c. ma la vera fondazione dell’Eremo è dovuta a San Romualdo, grande riformatore e fondatore di numerosi eremi nati intorno all’anno 1000.
La Pasquarella, infatti, fa parte di un gruppo di 12 conventini camaldolesi che sorgevano lungo le sponde del Tevere; di qualcuno appaiono i resti quando il lago artificiale di Corbara abbassa il livello, degli altri non resta più traccia.
In seguito alla partenza dei monaci nel 1500 circa, il monastero rimase legato ad ecclesiastici chiamati Abati Commendatari che però non risiedevano nello stesso luogo. Fu per questo che si provvide alla cura del santuario mediante eremiti ivi dimoranti.
La Pasquarella divenne commenda della curia romana e fu praticamente abbandonata. Vi si celebrava la messa solo per l’Epifania e si pensava di sconsacrarla, ma la gente continuava a recarsi nell’eremo.
Nel giugno 1873 fu nominato priore della chiesa di S.Valentino del castello di Acqualoreto, Don Giuseppe Bernardi, nativo di Baschi, il quale ebbe l’intuizione e il desiderio di riaccendere la devozione per la Madonna della Pasquarella.
Egli stesso scrisse delle poesie, delle sacre rappresentazioni sul tema dell’Epifania (si trovano presso l’archivio diocesano di Todi) e una breve storia del monastero; qualche anno dopo fu il primo a contribuire alla riedificazione del monastero.
Fino a qualche anno fa era consuetudine celebrare presso la gola del Forello la festa della Madonna della Pasquarella, durante la quale centinaia di persone ripercorrevano ignare antiche vie eremitiche e di penitenza muovendosi tra i mercatini e il frastuono gioioso delle voci dei passanti che si acquietavano solo al momento della messa, che solitamente si teneva sulla chiesetta in cima alla gola.
Nel giorno della Pasquetta ma anche in quello dell’Epifania era ormai diventata una tradizione che il fosso fosse invaso da genti desiderose di attraversare quel piccolo ritaglio di natura che conservava l’autenticità/candore della festività ma anche la spiritualità che li legava tutti indissolubilmente, soprattutto in quel periodo dell’anno.
In questa festa aveva grande rilievo, come anche anticamente, la dimensione della scampagnata tra i dirupi del fosso ma con la realizzazione della strada il culto e l’afflusso della gente ebbero poi un nuovo impulso, non solo per l’accesso divenuto più agevole ma anche per la realizzazione del fosso fino al santuario.
Questo santuario, che si staglia sulla cima, è stato oggetto nella tradizione popolare di dispute fra le due parrocchie di Acqualoreto e Civitella; della controversia dei suoi limiti però non sono pervenuti documenti ufficiali. All’interno troviamo l’effigie della Madonna venerata dove si dice sia visibile il sudore della Madonna e del bambino che si sarebbe riprodotto da tempo immemorabile nel giorno dell’Epifania.
È sul principio un sottilissimo velo acqueo, somigliante all’appannamento di un cristallo, che inizia a comparire sul volto della Madonna e del bambino al gloria della prima messa. Questo, mano a mano, va ingrandendosi e trasformandosi in minutissime goccioline, le quali si addensano e al fine si risolvono scorrendo giù a piccoli rigagnoli.
Il pellegrinaggio al santuario doveva costituire un avvenimento singolare anche per la gente che popolava la zona occidentale del comitato tuderte, costituendo un’uscita dai ritmi quotidiani.
L’eremitismo è la conseguenza di ciò che è il distacco umano e lo straniamento sociale che diventa esigenza di fuga per l’uomo.
Gli eremi che costellano il nostro territorio sono la culla dello spirito e del legame intimo che l’uomo stabilisce con la natura e con il silenzio.
Ciò che li ha stimolati a fuggire, infatti, non è stato il desiderio di segregazione sociale ma quello di evasione interiore e l’esigenza di ritrovare loro stessi.
Si afferma quindi nel pensiero dell’eremita un’instancabile ricerca dell’equilibrio che tenta di trovare nella meditazione una prospettiva nuova; ciò che concerne una vita individuale e monastica ‘ante litteram’ porta all’elevazione dello spirito e ad uno stravolgimento emotivo che viene esteso a tutta l’umanità.
È quindi una scelta di solitudine e contemplazione per arrivare a riconoscere e creare bellezza dalle radici da cui essa stessa diviene.
La natura è ciò da cui tutto ha origine e tutto si forma e permane nel tempo immutata ed eterna. Come la definisce Aristotele, è un sostrato materiale che contiene in sé un principio di movimento e di quiete con cui la fede coesiste in un armonioso connubio.
La parola eremita significa “deserto”.
In Oriente si è identificato col deserto reale, fatto di sabbia, di pietra e di aridità. In Occidente, invece, il concetto è entrato in naturale unione con quelli di foresta, di montagna, di natura impervia.
L’altra parola con la quale si è sempre indicata la vocazione eremitica è “anacoreta”, dal greco “anachoretes”, derivato di ἀναχωρέω , “ritirarsi”.
L’eremita, quindi, è colui che si ritira nel deserto e… nel silenzio. anche il “silenzio” è caratteristica fondamentale dello stile di vita eremitico.
L’eremita si “apparta” e quindi “si ritira” dal rumore che disperde per poter ascoltare nel silenzio il primordiale soffio di Dio racchiuso nell’animo, che è vita che “raduna” ma anche che si ritrova nella natura che lo circonda.
Parole che entrano in aperta contrapposizione con gli snodi critici del mondo attuale che si manifestano nel rumore, nell’affollamento, negli insistenti richiami alla virtualità, nelle tante ipocrisie ambientaliste, nella dispersività delle relazioni, nelle incertezze rispetto al ruolo nel mondo sia dell’umanità che del singolo individuo.
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