2500? No! Sono le iniziali di uno dei personaggi più temuti e ricercati degli ultimi decenni. Parliamo di uno dei boss della mafia più potenti e terrificanti della nostra Italia, ovvero Matteo Messina Denaro.
Il “padrino”, noto anche con i soprannomi U Siccu e Diabolik (nato a Castelvetrano il 26 aprile 1962), è un mafioso italiano, legato a Cosa nostra (organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico presente in Italia, soprattutto in Sicilia, e in più parti nel mondo). Capo indiscusso del mandamento (una personalità rappresentativa di alto livello di Cosa nostra) di Castelvetrano e della mafia nella provincia di Trapani, è uno dei boss più importanti di tutta Cosa nostra, avendo esercitato le proprie attività criminali anche oltre i confini della propria provincia, come in quelle di Agrigento e, addirittura, di Palermo. Nell’aprile del 2008 la rivista americana Forbes ha pubblicato una classifica nella quale Messina Denaro risultava tra i più ricchi del mondo classificandosi nei primi 400 del pianeta e al nono posto in Italia. Sempre nel 2008 l’FBI lo aveva inserito al quinto posto nell’elenco dei ricercati più pericolosi.
Ma vediamo più da vicino alcuni aspetti della sua biografia, per capire meglio chi è stato e cosa ha fatto questo personaggio.
Matteo Messina Denaro è figlio di Francesco Messina Denaro e di Lorenza Santangelo. Dopo le scuole medie si iscrisse all’Istituto tecnico commerciale ma si fermò al terzo anno; tentò di riprendere gli studi tempo dopo, ma la sua carriera scolastica finì nel dicembre del 1982, dal momento che le notevoli disponibilità economiche del padre potevano permettergli di snobbare gli studi. Nonostante questo, in futuro si pentirà di questa scelta e ammetterà che avrebbe voluto prendere la laurea.
Messina Denaro cominciò a delinquere da giovanissimo e nel 1989, a 27 anni, venne denunciato per associazione mafiosa perché ritenuto coinvolto nella sanguinosa faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Trapani. Nel 1989, Messina Denaro padre e figlio furono denunciati per associazione mafiosa e per l’omicidio di quattro uomini strangolati e sciolti nell’acido. Ovviamente, all’epoca vennero scagionati da tutte le accuse. Nel febbraio del 1991 decise di eliminare Nicola Consales, dipendente di un albergo di Selinunte, città sulla costa sud-occidentale della Sicilia, che si era lamentato con la segretaria austriaca, di cui si era infatuato (per altro l’amante di Messina Denaro), di «quei mafiosetti sempre tra i piedi», all’interno della sua struttura alberghiera.
Negli anni successivi il collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio, il primo a parlare del suo ruolo all’interno di Cosa nostra, dichiarerà che si trattava di «un giovane rampante, anche se non ancora capo, che ha avuto un’ampia delega di rappresentanza del mandamento da suo padre» (il padre era infatti latitante dal 1990).
L’anno seguente, insieme ad altri mafiosi di Palermo, fece parte di un gruppo armato incaricato di fare appostamenti a Roma per uccidere Maurizio Costanzo, Giovanni Falcone e l’allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli. Il gruppo fu poi richiamato prima di agire da Riina, famoso capomafia, perché voleva che la morte di Falcone avvenisse in maniera più plateale.
Sempre nel 1992, Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo che sembrava volersi ribellare all’autorità di Riina, e della compagna del mafioso, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. Qualche mese dopo partecipò anche al fallito attentato contro il vicequestore Calogero Germanà a Mazara del Vallo. Fu poi il momento delle stragi di Capaci e di via D’Amelio a Palermo, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e otto agenti di scorta. A seguito di questi attentati, che portarono all’arresto di Riina, Messina Denaro fu un sostenitore della continuazione dalla strategia degli attentati, insieme ad altri capomafia. Così, nell’estate del 1993 Messina Denaro fu il mandante delle stragi di via dei Georgofili a Firenze, dove furono uccise 5 persone e ferite altre 37, di via Palestro a Milano, con un bilancio di 5 vittime e 15 feriti, e alle chiese San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma, dove restarono ferite 22 persone.
Sempre nel 1993, mentre era già latitante, fu mandante dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a 15 anni, per costringere il padre Santino, ex mafioso pentito, a ritrattare sulle sue dichiarazioni relative alla strage di Capaci.
Infine, nel 1995, Messina Denaro è stato anche riconosciuto come il mandante dell’omicidio di Giuseppe Montalto, agente di polizia penitenziaria nella sezione 41-bis del carcere Ucciardone di Palermo. In base alle ricostruzioni, Montalto sarebbe stato ucciso nei pressi di Trapani dopo aver intercettato e consegnato alle autorità un “pizzino”, cioè un messaggio, diretto a un capomafia all’interno del carcere.
Il 16 gennaio 2023, Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena di Palermo, dove si è presentato con un’altra identità, con il nome di Andrea Bonafede, nato il 23 ottobre 1963. Quella mattina si era recato in ospedale per continuare il ciclo di chemioterapia, effettuata per curare un tumore. Insieme a Messina Denaro è stato arrestato anche Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara (Tp), accusato di favoreggiamento; era colui che avrebbe accompagnato il boss alla clinica per le terapie.
Oltre 100 uomini dei carabinieri del Ros hanno partecipato alla sua cattura. Quando i carabinieri sono entrati nella struttura il boss non ha opposto resistenza. Alla domanda «come ti chiami?», ha ammesso subito la sua identità, rispondendo «sono Matteo Messina Denaro». Il capomafia è stato portato prima nella caserma della compagnia dei carabinieri di San Lorenzo e, successivamente, spostato alla legione Carabinieri Sicilia, la stessa dove fu condotto Totò Riina. L’inchiesta che ha portato alla cattura del boss di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.
Anche dopo trent’anni di latitanza, la giustizia ha trionfato!
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