Trent’anni fa, nel 1993, Paolo Foresti iniziava la sua missione diplomatica in Albania, appena uscita dalla dittatura comunista più chiusa e paranoica d’Europa. Povertà, emigrazione e caos generalizzato sono lo scenario quotidiano dello sfortunato “Paese delle Aquile”. L’Italia, in quel momento difficile, si ricorda del rapporto speciale che la lega da sempre al suo vicino e si impegna in uno storico sforzo di sostegno e assistenza, ancora ricordato con grande affetto e gratitudine dagli albanesi
Dopo una lunga carriera diplomatica, che tra i numerosi incarichi ricoperti l’ha portato prima a Tirana all’Ambasciata di Belgrado e alla rappresentanza italiana presso le Comunità europee, Chairman ad Harvard, ad essere Consigliere diplomatico di tre Ministri della Difesa e poi Ambasciatore capo della rappresentanza presso l’Unione Europea Occidentale, l’ambasciatore Paolo Foresti ha scelto di ritirarsi nella quiete della campagna tuderte, dove lo raggiungiamo per ripercorrere insieme quegli anni tanto tumultuosi e importanti per la storia millenaria dell’Albania e dei suoi rapporti con l’Italia.
Ci accoglie circondato da una moltitudine di dipinti di artisti albanesi nel suo salotto da cui si gode di una magnifica vista su Todi, offrendoci dell’ottimo raki albanese. Prendendo spunto dal suo libro “I pranzi dell’Ambasciatore”, in cui ha saputo raccontare con leggerezza interessanti passaggi della nostra politica estera e i loro dietro le quinte, ci facciamo guidare in quegli anni dimenticati in cui è nata l’Albania moderna, processo che ha avuto il privilegio di vivere in prima persona dato il meritevole ruolo che il nostro Paese e l’Ambasciata vi giocarono.
In quale stato ha trovato il “Paese delle Aquile” quando, nel 1993, iniziava la sua missione diplomatica?
Il “Paese delle Aquile” era distrutto. Il regime era caduto, ma era caduto in realtà solo in parte, e gli albanesi si ribellavano a tutte le violenze che avevano subìto e che avevano anche accettato durante la dittatura. Il fortissimo livellamento sociale e le pene molto severe avevano intorpidito, quasi addormentato questo popolo, che alla caduta del comunismo si è improvvisamente risvegliato prendendosela con tutto quello che il regime aveva costruito, perfino quello che era utile per la comunità. Ospedali e fabbriche vennero distrutti, nessuno coltivava più la terra: la gente moriva di fame. Questa è la situazione che ho trovato, una situazione drammatica che esigeva di intervenire non in maniera tradizionale ma in modo molto vigoroso, e con questo scopo sono stato mandato in Albania. L’Italia era impegnata al punto da organizzare una missione militare senza precedenti che, disarmata e protetta solo dall’esercito e dalla polizia albanesi, distribuì centinaia di migliaia di tonnellate di viveri e medicinali.
Qual era lo stato dei rapporti politici e diplomatici tra Italia e Albania al momento del suo accreditamento? Erano stati mantenuti anche nei decenni della dittatura isolazionista di Hoxha?
Sì, i rapporti erano stati mantenuti, anche se l’Italia era stato un paese occupante. Arrivammo in Albania nell’aprile del 1939 come “amici occupanti”, ma a tutti gli effetti occupanti, e l’Albania fu unita alla Corona Sabauda a formare un’unione monarchica. L’obiettivo dell’Italia non era tanto quello di occupare l’Albania, ma di dimostrare alla Germania che anche l’Italia fosse in grado di occupare un paese. La figura di un ambasciatore italiano in Albania venne a mancare solo per un breve periodo tra l’Armistizio e la fine della guerra, ma i rapporti diplomatici vennero presto ristabiliti e mantenuti anche per tutto il periodo del regime comunista. Le relazioni allora certo non erano relazioni diplomatiche di un’amicizia eccellente, il regime isolazionista di Enver Hoxha aveva infatti delle resistenze verso l’Italia, ma erano relazioni tra due nazioni che da qualche millennio avevano avuto rapporti di continuità, legate da un filo che collegava il passato e il presente. Con la caduta del regime dittatoriale l’Italia, che gli albanesi avevano sempre visto in televisione, che ricordavano, conoscevano e amavano, divenne un punto di riferimento. Gli albanesi sognavano l’Italia come un miraggio di ricchezza e benessere, al punto che qualcuno mi raccontò di avere dedotto dalle pubblicità della RAI che persino cani e gatti mangiassero in ciotole d’argento. Iniziò quindi una migrazione di massa verso l’Italia con la speranza di diventare a loro volta benestanti. La politica italiana aumentò allora ulteriormente la sua attenzione nei confronti dell’Albania.
Quindi, come diceva, in Albania c’era una vasta diffusione della lingua italiana, e nel suo libro racconta come l’ascolto clandestino della radio e della televisione italiana sia stato l’unica finestra sul mondo esterno negli anni dell’isolamento comunista. Oggi la nostra lingua è ancora diffusa come allora?
Sicuramente l’ascolto clandestino è stato cruciale per la diffusione dell’italiano, ma c’è da tener presente che lo stesso regime spesso mostrava sui canali ufficiali film e programmi della RAI con lo scopo di ridicolizzare l’Occidente, non rendendosi conto che in questo modo otteneva l’effetto opposto. Per quanto riguarda la situazione attuale, non so se la lingua italiana sia diffusa più o meno di allora, certamente la nuova Albania si indirizza verso le lingue più diffuse nel mondo. L’inglese dunque è una priorità, anche se l’italiano rimane molto diffuso. Chiaramente la sua diffusione non è mai stata omogenea, nelle zone di montagna e nelle zone dell’Est è stato sempre meno parlato. Tuttavia la popolazione si concentra principalmente lungo la fascia costiera che va dal confine con il Montenegro fino al confine con la Grecia, e lì l’italiano è ben conosciuto. Inoltre, prima della seconda guerra mondiale, gli scambi tra i due paesi erano più intensi, molti albanesi venivano a studiare e a lavorare in Italia. Ma ripeto, se si legge la storia di Italia e Albania, ci accorgiamo che sono più di tremila anni che questi due paesi se ne vanno avanti a braccetto, qualche volta dandosi un pugno, qualche volta un bacio, ma mantenendo sempre stretti i rapporti.
Come sono nate le missioni Pellicano e Alba? Quale ruolo hanno avuto nello sviluppo dell’Albania?
La missione Pellicano è nata nel 1991 per aiutare gli albanesi a sopravvivere. L’Italia allora mandava in primo luogo aiuti alimentari, ma permetteva anche la ricostruzione del Paese. L’altro obiettivo della missione Pellicano era quello di limitare le migrazioni clandestine. Dall’Albania partivano intere navi dirette verso la Puglia e tutto questo comportava degli impatti notevoli, nonostante le comunità locali avessero accolto di buon grado i migranti albanesi. La missione Pellicano si concluse con successo alla fine del 1993, due anni dopo il suo inizio, quando ormai l’Albania era uscita dall’emergenza.
La missione Alba è nata invece nell’aprile del 1997, poco prima che finisse la mia missione in Albania, in un momento di grande tensione interna: eravamo alla vigilia di una guerra civile. Era una contrapposizione che riguardava tutte le forze politiche presenti in Albania, e in particolare ex comunisti e nuove forze pseudo democratiche. A questo si aggiungevano anche errori di valutazione di tipo economico; si pensava che le banche, che di fatto gli albanesi non conoscevano, funzionassero come enti erogatori, permettendo le diffusissime speculazioni basate su schemi piramidali. Questi erano i segnali dell’inizio di una guerra civile, per cui sono dovuto intervenire con efficacia presso il Presidente della Repubblica Sali Berisha, che ha seguito i miei suggerimenti e ha formato un governo di unità nazionale che ha bloccato questa situazione. Il clima continuava ad essere comunque molto teso. In vista delle elezioni del giugno ‘97 si decise allora in campo europeo di mandare una missione di sostegno al processo democratico. Anche se alla missione parteciparono altri paesi, tra cui Francia e Grecia, fu l’Italia ad avere un ruolo di primo piano e a garantire con successo che tutto si svolgesse tranquillamente. Le elezioni furono alla fine vinte dalla sinistra guidata da Fatos Nano e fu in quel momento che è ricominciato il cammino dell’Albania verso la democrazia.
Quindi a 26 anni dalla fine della missione Alba e del suo mandato diplomatico, quanto è progredita la giovane democrazia schipetara guidata da Edi Rama?
Quando lasciai l’Albania, era appunto pochi giorni prima delle elezioni del 1997, dovetti fare, come si usa nel nostro mestiere, un rapporto di fine missione. In un rapporto di fine missione si devono elencare le principali cose realizzate, e quindi i risultati ottenuti, ma anche le prospettive future e le necessità per assicurare un futuro di buoni rapporti. Il rapporto ovviamente non è noto, ma la conclusione gliela posso dire: al Ministro dissi che sarebbero dovuti passare trent’anni affinché la democrazia schipetara potesse essere definita una democrazia in quanto tale. Trent’anni sono passati e, guardando la situazione attuale, la mia era forse una previsione troppo ottimistica. Indubbiamente sono stati fatti moltissimi passi avanti, ma c’è ancora un po’ da lavorare. Una democrazia infatti si costruisce giorno per giorno e il processo democratico non si può mai arrestare. Oggi la democrazia albanese è guidata dal socialista Edi Rama, che è un politico abile e un po’ controverso. Innanzitutto è figlio di un membro del Comitato centrale del Partito del Lavoro, che in Albania era il partito comunista, e in generale era un privilegiato. Io lo andai a visitare quando era ancora giovanissimo. Infatti quando arrivai, nel 1993, l’Albania era ancora un enigma. Non era facile capire nel profondo questo popolo che aveva attraversato 450 anni di dominazione turco-ottomana, due guerre mondiali e 45 anni di una delle peggiori dittature, paragonabile solo a quelle dei paesi dell’Estremo Oriente come quella in Cambogia e in Corea del Nord. Uno dei modi migliori per capire la cultura degli albanesi era visitare intellettuali e artisti e conobbi quindi anche Edi Rama, che era un pittore. Lo andai a visitare nel suo studio, una mansarda piuttosto ampia con un alto soffitto, al quarto piano di una palazzina di fronte alla Città del Cinema, nel centro di Tirana. In un paese in cui una qualsiasi famiglia con quattro figli viveva in un appartamento di 30 metri quadrati, spesso con il bagno in comune con l’appartamento accanto, lui aveva addirittura uno studio. Era quindi sicuramente un privilegiato, ma al tempo stesso si è rivelato capace di capire la situazione dell’Albania e oggi è abilissimo a mantenere il suo potere destreggiandosi con disinvoltura sulla scena interna e internazionale.
Lei continua ad occuparsi con passione delle vicende albanesi, ha scritto anche recentemente alla Commissione di Venezia denunciando la demolizione dello storico Teatro Nazionale d’Albania, testimonianza dei legami culturali con l’Italia. Nel frattempo la Turchia costruisce a Tirana la moschea più grande dei Balcani e amplia i legami economici, culturali e militari con l’Albania. L’Italia sta perdendo influenza a scapito della Turchia neo-ottomana di Erdogan?
Direi proprio di no. Ovviamente la Turchia cerca di essere molto presente in Albania, ma l’Italia continua ad essere il primo paese importatore, esportatore ed investitore. La politica di inserimento e di presenza di Erdogan, che porta avanti con successo anche in altri paesi come la Libia, in Albania risulta meno efficace. La piccola Albania è infatti un paese fortemente europeista, caratterizzato da una propria tradizione plurimillenaria. Credo basterebbe che le dicessi questo per capire chi sono gli albanesi. Quando lei chiede ad un albanese “scusi, ma lei cosa si sente di essere?”, le risponderà sempre “un albanese”. Se poi chiede “ma lei di che religione è?”, le potrà rispondere che è bektashi, oppure sciita o sunnita, che sua moglie è cattolica, il figlio protestante, il nipote ortodosso, ma sicuramente le dirà che è innanzitutto albanese. Come per dire che il resto è una decisione che ognuno prende, ma esiste l’Albania e gli albanesi. E questo io stesso l’ho constatato durante la mia missione. Inoltre l’Albania è ormai nella fase finale del suo cammino verso il sogno europeo. E una volta che l’Albania avrà raggiunto gli obiettivi di tipo ordinamentale, giuridico e politico necessari per l’entrata nell’Unione Europea non credo che l’influenza della Turchia neo-ottomana, molto forte in altri paesi islamici, rappresenti più un problema.
Per concludere, quali consigli potrebbe dare a un liceale che è appassionato di questi temi e desidera intraprendere la carriera diplomatica?
Posso rispondere partendo dalla mia esperienza: io ho intrapreso la carriera diplomatica per vocazione. Consideri che l’organo che comunemente viene chiamato ambasciata si chiama, in realtà, missione diplomatica. E il termine “missione” sul vocabolario italiano ha un significato ben preciso: la diplomazia per me non è un mestiere, è una vocazione. È una carriera che si intraprende solo se si ha la convinzione che la diplomazia sia uno strumento di pace, di collaborazione e di condivisione. Io provengo da una famiglia che aveva delle importanti attività industriali e fin da ragazzo, mio padre aveva deciso che mi avrebbe affidato una branca molto importante, quella delle pelletterie. Il futuro che aveva deciso mio padre però mi stava stretto, la mia passione era il cielo, l’universo e in particolare gli aerei. Il mio sogno era quello di diventare pilota, e presto annunciai ai miei genitori il mio desiderio di entrare in Accademia. Ma i miei genitori non firmarono la domanda di ammissione e mi misero davanti ad una scelta: entrare in Accademia una volta raggiunta la maggiore età, quindi a 21 anni, oppure rinunciare alla mia aspirazione. Non volendo iniziare l’accademia con tre anni di ritardo, mi lasciai guidare dalla mia intima aspirazione di rendere il mondo più pacifico e collaborativo. Ed è così che intrapresi la carriera diplomatica, ispirato anche dall’esempio di alcuni nostri antenati che erano stati diplomatici.
È difficile però dare dei consigli, perché quando diventai ambasciatore era un’epoca molto diversa, oggi il mondo è cambiato ed è cambiata anche la diplomazia. Quando divenni ambasciatore in Albania fui forse in quel contesto l’ultimo interprete di una vecchia diplomazia, in cui la figura del diplomatico era ancora quella post Napoleonica dell’Ottocento, cioè era l’alter ego del Capo dello Stato. Oggi invece un ambasciatore è un alto funzionario dello Stato specializzato nella diplomazia, cioè nel gestire i rapporti tra i paesi, tra le persone e tra le organizzazioni internazionali. Quindi mentre allora io ero il terminale, oggi un diplomatico è un anello di una catena ben più lunga. Questo credo sia un progresso, ma al tempo stesso ha cambiato il tipo di professione, perciò ritengo che la mia esperienza non sia del tutto rappresentativa per chi vuole oggi intraprendere la missione della diplomazia. E con questo non voglio dire che fare il diplomatico oggi sia qualcosa di meno nobile, è semplicemente un po’ diverso.
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