Quest’estate c’è stato in Tanzania il congresso universale di Esperanto che ha radunato giovani da tutto il mondo. L’Esperanto è una lingua ideata da Ludwik Lejzer Zamenhof intorno al 1872 con lo scopo di permettere ai popoli di tutto il mondo di comunicare facilmente. Alcuni la ritengono un esperimento fallito ma al giorno d’oggi è parlata da moltissime persone in tutto il mondo e la comunità esperantista è ancora attiva anche qui in Italia. Io ho scoperto questa lingua tramite mio padre che la insegna ed ha partecipato negli anni a molti congressi mondiali come quello in Tanzania. Anche io ho partecipato a quest’ultimo insieme alla mia famiglia non conoscendo l’Esperanto quasi per niente ma sono comunque riuscito a cavarmela e in questo articolo vi racconterò un po’ la mia esperienza. Da qui il titolo del presente articolo, in Esperanto, che significa proprio” il mio viaggio in Tanzania.
Dopo un volo durato otto ore arrivai all’aeroporto del Kilimangiaro verso le 21:00, fuori dal finestrino non si vedeva quasi niente, le luci della città erano poche e molto fioche. Una volta atterrato venni portato da una jeep fino al mio hotel ad Arusha, a due passi dal centro congressi dove si sarebbe svolto il convegno. Il tragitto fu movimentato, le strade in Tanzania sono larghe perché il territorio e per lo più pianeggiante ma noi europei non siamo abituati allo stile di guida spericolato del posto, lì però fa parte della quotidianità. Guardando dal mio finestrino notai numerosissime moschee e chiese, ne spuntava una ogni due passi. Le strade erano popolate da motociclette, furgoncini e innumerevoli camion coloratissimi, decorati con scritte, foto di cantanti famosi o icone religiose, un po’ come noi in Italia che abbiamo i furgoni con il volto di padre Pio stampato sulla portiera.Quando arrivai all’hotel mi trovai davanti un palazzone bianco estremamente moderno, c’era sempre qualcuno alla portineria, anche in piena notte. La camera era molto grande e ordinata, arredata con grosse poltrone e quadri raffiguranti gli animali tipici della regione di cui i tanzaniani vanno molto fieri tanto che un nome tra i più comuni è “Simba” che in Swahili, la lingua del luogo parlata in gran parte del continente africano, significa leone. Già dopo il primo giorno di congresso riuscii a farmi molti amici, provenienti da tutti gli angoli del pianeta: Victoria, Betty e Miriam dalla Tanzania, Michael dal Fongo, Amalia e Ines dalla Francia e William dall’Australia. Parlammo molto, ognuno insegnava la propria lingua agli altri, sembrava di assistere al miracolo di Pentecoste. In particolare Victoria mi spiegò molto riguardo alla cultura della Tanzania e rispose con infinita pazienza alle mie continue domande. Mi aveva colpito molto la grande quantità di luoghi di culto ed ero curioso di sapere come potessero convivere così tante religioni differenti l’una accanto all’altra. Lei mi spiegò che in Tanzania le religioni più diffuse prima dell’arrivo dei colonizzatori erano quelle generalmente definite pagane che veneravano la natura. I seguaci di questi culti erano soliti offrire cibo a degli idoli come ad esempio imponenti macigni, grossi alberi oppure forze della natura come il sole; ad esempio nella regione del Kagera i sacrifici erano costituiti da birra e banane, prodotti tipici del luogo. Questi sacrifici avevano lo scopo di evitare sciagure e attirare la buona sorte. Con l’arrivo dei colonizzatori europei però questi culti vennero sostituiti da altre religioni, al giorno d’oggi le più diffuse in Tanzania sono il Cristianesimo, l’Islam e l’Ebraismo. Queste tre fedi devono convivere l’una di fianco all’altra e se non bastasse sono ulteriormente divise al loro interno, infatti i cristiani sono divisi in cattolici, pentecostali, sabbatiani, luterani e molti altri e anche i mussulmani sono divisi a loro volta in altrettanti gruppi, insomma, una gran confusione. In Tanzania e in altre parti dell’Africa la religione è scelta dalla famiglia dunque chi nasce in una famiglia cristiana è cristiano e così via, le tensioni sono rare e anzi esistono varie famiglie formate da membri di religioni diverse che addirittura festeggiano insieme le festività ma in altre zone del continente il clima non è così pacifico e si presentano spesso fenomeni di violenza. Lontano dalle grandi città invece esistono ancora oggi moltissimi villaggi sperduti dove non arriva né l’acqua né la corrente elettrica, in questi luoghi dimenticati le antiche religioni sopravvivono ancora. I sacerdoti pagani sono chiamati dai tanzaniani medici maghi, in swahili “waganga” e forniscono rimedi magici in cambio di un pagamento in natura chiamato “mashariti”, solitamente galline o altri viveri. Queste offerte vanno portate al medico il quale ne sacrificherà una parte e ne terrà un’ altra come ricompensa (per ovvie ragioni non accettano pagamenti col bancomat). Una volta avvenuto lo scambio il medico dona al suo cliente un talismano, solitamente un braccialetto o un altro gioiello, chiamato “irizi” che, se indossato, farà in modo che si realizzi ciò che è stato desiderato, solitamente i desideri più comuni sono la salute, l’amore, la fortuna o la ricchezza.”Ma come si diventa maghi?” Chiesi alla mia amica sempre più incuriosito?La religione in Tanzania si vive in famiglia quindi per diventare medici delle arti oscure bisogna nascere in una famiglia pagana, se pensavate di farne la vostra professione mi dispiace ma la vedo dura, dovete sapere anche che la popolazione non vede molto di buon occhio la magia e anzi crede sia opera del demonio. Piccola curiosità, anche le streghe tanzaniane possono volare, non a cavallo di una scopa ma dentro un setaccio rotondo usato per pulire il riso dall’amido, la mia amica Victoria dice che in un setaccio possono entrare fino a tre persone. I pasti venivano distribuiti alla mensa del centro congressi chiamata “Manĝejo” che in esperanto vuol dire letteralmente “luogo dove si mangia”, parola che combina la radice “manĝ” che indica il mangiare e il suffisso “ejo” che indica invece il luogo fisico, con questo meccanismo di suffissi da una singola radice si possono formare moltissime parole facilmente comprensibili anche a intuito da tutti coloro che conoscono un minimo la lingua. Il cibo era davvero buonissimo, la Tanzania per via della sua posizione geografica è al centro delle rotte commerciali provenienti dall’oriente quindi nei secoli alcuni piatti sono entrati a far parte della cucina locale. Per esempio al posto del pane viene preferito il riso, uno dei piatti tipici è il samosa, un piatto originario dell’india, costituito da pasta fritta ripiena di carne o verdure. Un’ altra specialità del paese sono le banane che vengono preparate in tantissimi modi diversi: fritte, al forno, arrosto, vengono usate per produrre la birra o per preparare una zuppa, oppure più semplicemente vengono mangiate così come sono, ma non tutte le banane sono commestibili da crude, quelle destinate a questo tipo di consumo sono più piccole e si riconoscono dal colore del tronco del banano che le genera. Mentre assaggiavo tutte le specialità locali mi si avvicinò un ragazzo -è comune al congresso che qualcuno venga da te per presentarsi e fare conoscenza- così conobbi Michael col quale legai da subito; lui veniva dal Kongo e per raggiungere la Tanzania aveva viaggiato per settimane in autobus senza scendere neanche per dormire. Anche lui ha scritto un articolo riguardo la sua esperienza intitolato “Mia vojaĝo” che in esperanto vuol dire il mio viaggio. Michael parlava molte lingue e spesso faceva da interprete nel gruppo, essendo lui cresciuto in Kongo aveva imparato lo Swahili e il Francese, successivamente studiò anche l’Inglese e scoprì poi anche l’Esperanto. Io allora gli chiesi quale tra queste sentisse più sua e lui mi spiegò che nella vita aveva spesso cambiato paese e che in famiglia i suoi genitori parlavano lingue diverse quindi non sentiva di avere una lingua madre. Prima di lasciarci mi regalò un libro e la sua penna che ancora oggi uso per prendere appunti in classe, io invece per ricambiare gli regalai un libro di poesie in Esperanto. Ad ogni congresso sono presenti varie escursioni che permettono ai turisti di scoprire le bellezze del paese ospitante, io partecipai a molte ma la più bella fu sicuramente quella al villaggio Masai.I Masai sono una tribù indigena che vive tra la Tanzania e il Kenya, sono vestiti con lunghe tuniche colorate, originariamente fatte con pelli di animali, oggi fatte di stoffa preveniente dai mercati arabi. Anche il bastone che usano per condurre il bestiame e’ di un ramo ripulito dalla corteccia che viene dato solamente ai ragazzi non appena sono abbastanza grandi per portare le mandrie. Molti li conoscono anche per il loro modo di danzare. Quando ballano l’intero villaggio si riunisce in cerchio e tutti insieme iniziano a cantare, le donne emettono versi più acuti e generano un tintinnio agitando le loro collane e i loro bracciali mentre gli uomini emettono suoni più gravi e compiono grandi salti reggendo il loro bastone per l’estremità più bassa, la loro musica è ripetitiva e ipnotica.I Masai sono poligami e ogni villaggio è formato da tutti i figli di uno stesso padre, i villaggi dunque sono piccoli ma molto vicini tra loro. Quando un uomo è in età adatta al matrimonio suo padre gli sceglie la prima moglie e paga una dote che solitamente consiste in capi di bestiame, per esempio in media una moglie viene circa tredici mucche, le altre mogli invece possono essere scelte dal marito che però dovrà pagarsi da solo la dote. Sono molti i rituali di passaggio all’età adulta, ai bambini viene rimosso un dente da latte o viene forato un orecchio, successivamente ricevono due tatuaggi tondi sulle guance e quando raggiungono l’età adulta gli uomini ricevono un coltello. Alcuni di questi Masai vengono finanziati dal governo per recarsi nelle città e compiere vari studi tra cui quello della lingua inglese così che possano poi insegnare nei loro villaggi e fare da guide ai turisti. Quando arrivò per me il momento di ripartire per l’Italia per salutarci i miei amici mi portarono lungo la via degli artisti, piena di negozi che vendevano dipinti e statue di legno intagliate a mano, ci scambiammo vari regalini, io gli diedi delle cartoline di Narni, la città dove vivo, e delle piccole confezioni di nutella che mi ero portato da casa. Una volta scambiati gli ultimi saluti ci promettemmo di rivederci un giorno, dopo di che presi la mia valigia e ripartii per l’aeroporto. Da questa vacanza ho imparato che la Tanzania per certi aspetti non è molto diversa dall’Italia e non è un paese così primitivo come a volte lo immaginiamo, per esempio lì hanno una donna come presidente. La ricorderò sempre come un’ esperienza magnifica e spero di tornare presto in Africa, sicuramente la cosa che mi manca di più della Tanzania è il kitumbua, un dolce tipico a base di riso e cardamomo, squisito. Un saluto a tutti i miei affezionati lettori, alla prossima!
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